Road House | Recensione

Da queste parti è piuttosto risaputo che ci sia una certa attrattiva per i cari vecchi trogloditi action ’80/’90, sciocchi e banali, amorevolmente bidimensionali. Qual è la formula magica? Perché sono bellissimi? Probabilmente perché nessuno può negare che un paio di rutti espletati in pellicola siano un toccasana, giusto come distrazione di qualche ora dalla noiosa routine quotidiana.

Eh sì, c’è già stato John Wick a far tornare in auge gli action ignoranti. Ma sapete che c’è? Non possiede quella particolare autenticità dei suoi antenati. Probabilmente a causa dell’aura sepolcrale del suo protagonista. E allora dai, menomale che adesso c’è il remake de Il Duro del Road House, per gli amici Road House.

Finalmente un action che non si vergogna di essere in quanto tale. Ingenuo e ignorante quanto basta, grazie a un’impostazione tipica da action d’antan, e in parte western come ci viene suggerito. Road House ha le idee abbastanza chiare: non pretende di essere un nuovo caposaldo del suo genere e non chiede nulla a chi lo guarda, e lo ringraziamo tanto per questa sua scelta. Buoni contro cattivi; eroe in difesa dei deboli; location suggestiva. La semplicità paga.

Vi starete chiedendo quali sono le differenze con l’originale. Beh, sono numerose, ed è inutile elencarle qui dato che si fa prima a vederlo. Vi basti sapere che Patrick Swayze resta unico e inarrivabile, tuttavia Jake Gyllenhall non è uno stupido e lo sa, dunque fa a modo suo, forgiando un personaggio labile sul piano psichico, uno che non possiede nemmeno un catalogo di one-liner da usare all’occorrenza. Dunque sì, abbiamo un eroe diverso dai tempi del duro del Road House, tuttavia in qualche modo ne riprende lo spirito malinconico dell’outsider della notte, calmo e pacato, pronto alla violenza solo come ultima istanza.

Altra differenza di questo Road House rispetto al predecessore è legata alla sua voglia di mostrare maggiormente una sfilza di botte ignoranti, che fortunatamente è uno degli aspetti più riusciti grazie alla buona regia di Doug Liman, un mestierante che sa il fatto suo in fatto di calci in culo dai tempi di The Bourne Identity. E dato che parliamo di ignoranza è impossibile non citare la presenza nel cast di Conor McGregor, uno dei massimi esponenti UFC, nonché uno degli atleti più pagati del mondo, conosciuto ai più a causa del suo carattere non particolarmente mite, al limite con il buon senso e della legge, se non addirittura oltre la legge. Attore per caso, ciononostante qui si mostra come una figura funzionale alla causa di utile idiota patentato, sebbene avremmo fatto a meno della sua presenza.

Nel suo anacronismo Road House è paradossalmente una ventata d’aria fresca contro un mondo in cui tutti ambiscono a raggiungere vette solo sognate. D’altronde un action che si spoglia di sovrastrutture pseudo-qualcosa di intelligente era tutto ciò che da queste parti si chiedeva da tempo, proprio come un Calippo preso per il verso giusto. Adesso la speranza è che qualcuno segua l’esempio e ci mostri la via dell’università della strada.

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