Dune – Parte 2 | Recensione

Eravamo rimasti al vernissage, e questo perché Denis Villeneuve è il cineasta delle immagini per antonomasia. Possessore di una cifra stilistica ricercata e rivendicata con orgoglio. Chi conosce la prima parte sa già cosa aspettarsi da questo continuo, sia riguardo i tempi dilatati nello spazio tempo, sia sul piano della messa in scena, piuttosto seriosa, e soprattutto bellissima, naturalmente.

Dune è a tratti superlativo, ascende alla perfezione iperbolica di ciò che dovrebbe essere il cinema fatto bene, nonché grazie a una serie di tocchi di classe che cannoneggiano suggestioni da tutte le parti. Proprio per queste ragioni Dune offre il meglio di sé dentro una sala, possibilmente nella più grande presente nelle vicinanze. E sebbene non sia esattamente tutto riuscito, stiamo probabilmente parlando di uno dei migliori sci-fi delle ultime decadi, nonostante il giudizio dei puristi del cinema d’essai, che indubbiamente avranno pur sempre qualcosa da recriminare dato che Dune ruota attorno a quella formula in cui il cinema d’autore incrocia l’aspetto strettamente commerciale. Ad alcuni non piacerà quest’ambivalenza, tuttavia che male c’è: Il cinema è un’industria, non un ente di beneficienza. D’altronde non si buttano fantastiliardi di dollari così, senza cognizione di causa.

Siamo dinanzi un’opera colossale e complessa che chiede una fiducia cieca nei suoi confronti, simile alla fede professata dai fondamentalisti Fremen nei riguardi del loro Messia; in questo caso una fiducia che possiede come contropartita qualcosa per cui vale la pena credergli. Qui la posta in gioco è un’esperienza cinefila di grande impatto, una space opera come non si vedeva da tempo.

Non è un film facile, richiede un certo grado di impegno per carpire, solo in parte, la sua complessità del non detto, ma anche del “non ho il tempo per l’esegesi di ciascun personaggio, però guarda che belle immagini“. D’altro canto non è un problema quando le condizioni permettono all’immagine stessa di essere circostanza e contenuto, però con la premessa che sia da cogliere al primo colpo, senza ragionarci troppo, o altrimenti si perde quella magia del cinema lì.

Dimenticate il dietrologismo accattone del cinema commerciale, subdolamente complicato e infine chiarito a tarallucci e vino. In Dune non tutto è spiegato bene, sia per ragioni di tempo, mai abbastanza per racchiudere il lavoro di Frank Herbert, e sia a causa della difficoltà di chiudere il cerchio davanti quella scala di grigi che porta gli individui a prendere decisioni importanti, anche sulla base di piccole sottigliezze a noi magari insignificanti. Così è la vita, così è il cinema di Villeneuve.

Se proprio vogliamo essere sinceri e trovare il pelo nell’uovo, in Dune, ma come in qualsiasi altro film a dir la verità, possiamo individuare tutti i difetti che vogliamo, reali o presunti, tuttavia è innegabile la qualità complessiva di un’opera, studiata e mirata per essere ricordata ai posteri. Quattro scene overstanding ben piazzate cancellano vagonate di merda fluorescente espletata nell’ultimo decennio. Tocchi di classe dicevamo: geniale l’idea di mostrare il pianeta degli Harkonnen con il filtro dell’Istituto Luce. Ma c’è tanto altro, a tratti siamo dalle parti della fantascienza retrofuturista anni ’70. Che dire poi del wormsurf.

Adesso siamo pronti per la jihad?