Autostrada per l’Inferno | Recensione

Autostrada per l'inferno

Nella settima arte uno dei miei guilty pleasure preferiti è il portapizze, rigorosamente con cappellino rosso, com’è giusto che sia. Non c’è una spiegazione ragionevole del perché abbia una certa inclinazione per il tizio delle pizze a domicilio. Lo vedo come una figura mitologica, che magicamente appare da chissà dove, e poi esce di scena, via verso l’iperuranio. L’abbiamo visto in tanti film, spesso usato come tramite tra una scena e l’altra; altre volte è lì senza un motivo specifico, magari perché possiede in sé una ragione di esistere. Mi piace pensare che sia così. Ma che succede quando invece il nostro diventa il protagonista di un horror b-movie? Solo amore per il cinema. Naturalmente.

Altra cosa: da anni cercavo un film visto parecchie ere geologiche fa, di cui però non ricordavo il titolo, e avevo giusto qualche reminescenza. Recentemente mi sono imbattuto accidentalmente nella sua pagina Wikipedia. E ora siamo qui a parlarne. Perché sì: l’ho rivisto il giorno stesso, ed è stato bellissimo.

Per la cronaca il film in questione è Autostrada per l’Inferno, in cui il protagonista è un portapizze, cosa di cui non ricordavo, faccio ammenda. Film girato da un certo Ate de Jong. Regista mai sentito, e che probabilmente dopo questa pellicola deve aver intrapreso un percorso pastorale per redimersi dai suoi peccati, dal momento che Autostrada per l’Inferno supera ogni concetto di bene e male; talmente assurdo che fa il giro e poi però cade giù dentro un burrone. Un film on the road, a metà strada tra un horror-fatto-male e una commedia-fatta-male. Però è bellissimo lo stesso, già solo dall’idea che qualcuno abbia preso seriamente un plot completamente fuori di testa, in cui un portapizze deve salvare la sua promessa sposa, rapita e condotta fino all’inferno da un agente della stradale satanista (sì, avete letto bene).

Eh no, l’inferno non ha l’aspetto – e neppure un briciolo di charme – di quello descritto dalla Divina Commedia, se è questo che immaginate, sebbene ci sia più di un riferimento all’opera di Dante Alighieri. Tutto rigorosamente pressapochista, ci mancherebbe. Per certi aspetti quest’oltretomba qui rappresentato è ancor più sopra le righe di quello descritto dal sommo poeta, dato che in questo caso ci troviamo di fronte un inferno desertico simil-Nevada con una simil-Las Vegas. L’effetto è straniante, ma curioso. Tuttavia è così fatto male che siamo alla parodia di un horror b-movie, sembra di trovarsi dinanzi alla messa in scena dietro un’altra messa in scena, però sola immaginata; un po’ come vedere gli Occhi del Cuore senza sentire René Ferretti che sbraita dietro le quinte.

Chiariamo che in Autostrada per L’inferno il grottesco è volutamente presente, ma è dozzinale, svogliato, come qualsiasi cosa fino ai titoli di coda. Ad aiutare la causa non bastano le comparsate di un giovane (e all’epoca sconosciuto) Ben Stiller, tra l’altro accompagnato dal padre Jerry Stiller; stesso discorso vale per il cameo del grande Gilbert Gottfried nei panni di Hitler.

Autostrada per l’inferno è tutto esageratamente sopra le righe, talmente stravagante e mal riuscito che resta un mistero come non sia diventato un cult, nemmeno col passare degli anni. Fosse uscito dalla Troma ci sarebbe una spiegazione razionale del tutto e avremmo tranquillamente chiuso il cerchio, ma così non è.

In ogni caso noi siamo qui a testimoniare i bei tempi quando si realizzavano film con l’ausilio di oppiacei sottocosto, ma soprattutto come testimonianza di chi nella vita è disposto a dei sacrifici pur di realizzare i propri sogni, anche a costo di buttare i propri guadagni nel cesso a causa di quell’amore incondizionato per i portapizze.