Capolavoro, monumentale, irraggiungibile, classico dell’epoca moderna. Gli epiteti per Mad Max: Fury Road si sprecano e si dilatano nello spazio tempo alla velocità della luce. D’altronde sono tutti meritati per uno dei migliori, se non il migliore, action di tutti i tempi. Anche se definirlo solo un action è piuttosto riduttivo, poiché stiamo parlando di un’opera che per certi aspetti si eleva dalle classiche categorie del cinema per avvicinarsi alle origini della settima arte, intesa come spettacolarizzazione delle immagini in movimento.
Mad Max: Fury Road è nel senso più ampio l’opera di George Miller, già creatore e regista della prima trilogia di Mad Max. E malgrado i tempi siano cambiati e non ci sia più la libertà creatività del passato, anche stavolta il settantenne cineasta australiano, con caparbia e un bazooka in spalla, è riuscito nell’impresa di realizzare tutto ciò che egli immaginava fin dall’inizio, oltrepassando qualsiasi ostacolo si contrapponesse alla sua visione. Un’ostinazione che alla fine lo ha premiato sul piano della critica e del pubblico, e riservandogli già da adesso un posto speciale.
George Miller con molta perspicacia ha riscritto buona parte del manuale del cinema con un esempio di regia e alta artigianalità specializzata, per mezzo di geometrie studiate al millimentro e infine cucite da un montaggio che rasenta la perfezione. Sembra poco ma in realtà è ciò che fa la differenza tra un regista e l’altro.
Fury Road è un grande circo di stuntman pieno zeppo di spettacoli: Uomini che si lanciano da un veicolo in corsa invocando il dio dei motori; scontri all’arma bianca sopra una cisterna; inseguimenti infiniti. Dietro questo caos organizzato se ne deduce un lavoro coreografico mai visto prima, analogamente al caro cinema artigianale di una volta. Pochi effetti in computer grafica, tanta polvere e sudore. Un’esperienza visiva unica nel suo genere, un’exploit di azione e creatività in continuo movimento. Peraltro non potrebbe essere altrimenti dato che l’azione si svolge prevalentemente dentro, sopra e nelle interiora di qualsivoglia diavoleria a quattro ruote post-atomica.
Ciò che stupisce è la creatività con cui è stato attenzionato ogni singolo aspetto: dai costumi ai veicoli, dalle location in pieno stile Mad Max fino alla fotografia saturatissima. Perfino i nomi delle città: Gas Town e Bullet City, sembrano provenire da un brainstorming di premi Nobel.
Potremmo continuare ad aggiungere altro e non finire mai di scrivere cosa rappresenti Fury Road per il cinema, nonostante possieda uno script piuttosto esile che consiste nell’andare dal punto A al punto B. Tuttavia George Miller con quest’opera ci ricorda che l’alchimia magica del cinema è tutta lì, in cui un’immagine in movimento vale più di un aggrovigliamento di riflessioni dette a parole. Grazie.