Wes Studi è uno dei miei attori “secondari” preferiti, con quel suo sguardo magnetico e quello standing che non lasciano indifferenti. Molti lo ricordano soprattutto per l’Interpretazione di Magua in L’Ultimo dei Mohicani, ma ha partecipato anche in molti altri lungometraggi. In questi giorni potete vederlo al cinema nel film Hostiles – Ostili, insieme a Christian Bale.
Per omaggiarlo vi riporto la sintesi di un’intervista rilasciata per il sito di Newday.
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Wes Studi è entrato nel mondo del cinema in età tardiva. L’attore nativo-americano, 70 anni, un Cherokee dell’Oklahoma, apparve nel suo primo film fino a non prima dei 40 anni. Ma da allora il carismatico interprete, veterano della guerra del Vietnam ed ex allevatore, ha incantato il pubblico con i suoi ritratti di guerrieri indiani d’America con film come Balla coi Lupi e L’Ultimo dei Mohicani. Lo ricordiamo come attore in altri film quali Street Fighter, in Heat La Sfida e in Avatar di James Cameron.
Hai preso parti che ti hanno richiesto di parlare lingue diverse in altri film, incluso un finto dialetto extraterrestre in “Avatar”. Qual è il trucco per parlare in modo convincente gli altri idiomi?
Cerco di capire cosa viene trasmesso, qual è il significato, quindi memorizzo la fonetica. È qualcosa che puoi trasmettere con le parole, le espressioni facciali e tutto il corpo.
Sembra anche che tu abbia un’affinità con personaggi cattivi come il terribile Magua di “L’Ultimo dei Mohicani”. Perché è così?
Il più delle volte i ruoli da cattivo sono più divertenti dei ruoli da bravi ragazzi. Molto ha a che fare con l’immagine – che aspetto ho? Posso essere un orsacchiotto, ma più persone tendono a vedermi come l’altro lato della medaglia, e questo ha a che fare con il casting. Però io ritengo che i cattivi non siano sempre così come li dipingono; ho interpretato personaggi che fanno la cosa giusta per le circostanze del tempo.
Quando eri un ragazzino, non c’erano molti attori americani indiani, il più importante era Jay Silverheels, che interpretava Tonto in “The Lone Ranger”. Come sono cambiate le cose nel corso degli anni?
Se appartieni ad una minoranza etnica spesso i registi ti usano come una macchietta di quella comunità, ma non la pensano tutti così. Oggi le cose stanno migliorando e ci sono sempre più nativi americani coinvolti anche in altri ruoli differenti dal solito.
Quando sei entrato nel business, eri preoccupato per il casting, cioè che saresti apparso solo in Western?
All’epoca pensavo che era molto probabile che avrei iniziato e concluso la mia carriera di attore dentro il genere western. Però sono riuscito ad interpretare anche altri ruoli che non richiedevano una specificità della mia etnia.
Qual è stata la lezione più dura che hai dovuto imparare come attore?
Una delle cose che ho imparato fin dall’inizio era di immedesimarmi nel personaggio, devi credere in quello che dici. La telecamera in un certo senso è l’arbitro della verità, è l’occhio onniveggente che può individuare discrepanze. Non puoi mentire alla telecamera, devi credere in quello che stai dicendo, o il pubblico non ti crederà.
Hai prestato servizio nella fanteria in Vietnam. Che cosa hai rimosso da quell’esperienza?
Il peggio è stato il ritorno negli Stati Uniti e il modo in cui eravamo trattati come veterani. Una delle cose buone di quell’esperienza è stato mettermi alla prova, e ce l’ho fatta. Mettermi alla prova è stata una costante nella mia vita, che continuo a mettermi alla prova ogni volta che salta qualcosa di nuovo.
Quando hai finalmente capito che potevi guadagnarti da vivere come attore?
Dopo “Geronimo”, penso. Ad ogni modo prima di sentire una tale sicurezza avevo fatto domanda per una scuola guida di camion. Più o meno avevo accettato l’idea che se non avessi lavorato più come attore avrei fatto qualcos’altro dopo.