The Suicide Squad | Recensione [Double bill]

Teste spappolate, corpi tranciati a metà, esperimenti disumani, frattaglie umane in sacrificio al dio dei b-movie. The Suicide Squad è la definitiva celebrazione della Troma, è il cinecomic che finalmente svela cosa può realizzare un cineasta di talento, partito dai bassifondi, con a disposizione carta bianca e tanti dollaroni in tasca da poter spendere a proprio piacimento. Avviene di rado, ma a James Gunn è stato concesso, poiché anni di fallimenti della DC sono stati davvero umilianti per chi ha dato i natali a supereroi quali Batman e Superman. Anni di sfottò continuo da parte del fandom avversario e risultati al box office molto al di sotto delle aspettative, tutto ciò ha fatto sì che la DC si affidasse ciecamente nelle mani di James Gunn, cioè a colui che ha dato una svolta goliardica all’universo MCU grazie a un titolo come Guardiani della Galassia.

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Il carnevale dei poveri

The Suicide Squad è tanta roba, c’è sì l’ironia mezza scema dei cinecomic, ma possiede nell’anima quel background del cineasta di St. Louis, passato dalla Troma ai blockbuster grazie a quei miracoli che avvengono soltanto a Hollywood, solo lì. James Gunn miscela il cinecomic e la sua vita precedente dedita all’horror low-budget mediante uno stile ricercato e una notevole competenza cinematografica a tutto campo, aspetti piuttosto tangibili sia sul piano registico e sia nella creatività scagliata un tanto al kilo nel sopprimere chiunque nel modo più scenico possibile, un’inventiva studiata a tavolino e funzionale alla causa di entrare a gamba tesa nell’immaginario collettivo. Non male il momento in cui King Shark squarta il povero malcapitato, ma non mancano altre morti memorabili e altre scene da applausi, con Starro lì pronto in attesa di entrare in azione, tra il serio e il faceto. Sottolineiamo: È un film di teste mozzate e scene di una violenza quasi commovente per un blockbuster del genere. DISCLAIMER: NON È UN FILM PER FAMIGLIE. Non c’è scritto, ma è urlato ovunque.

Poche pretese e tanto intrattenimento adulto, The Boys è l’elefante nella stanza, motivo per cui The Suicide Squad è destinato a lasciare il segno del genere cinematografico a cui appartiene, sebbene travalica il recintato per raggiungere le parti dei più generici blockbuster come opera stand alone. Oltretutto raggiunge il suo scopo a pieni voti al netto di un minutaggio di oltre due ore del quale avremmo fatto a meno a favore di un ritmo più sostenuto, soprattutto nella parte centrale. Va da sé che l’asticella dell’interesse rimane sempre sopra la media, a prescindere dal ritmo narrativo altanelante e alle volte coercitivo per offrire più visibilità ad Harley Quinn, unico personaggio sopravvissuto a quel Frankenstein cinematografico del precedente Suicide Squad di David Ayer. A ogni modo Margot Robbie è nella parte, come lo è tutto il cast, Idris Elba e John Cena su tutti, galvanizzati da un progetto tanto folle quanto coraggioso. Nondimeno importante la presenza di Michael Rooker, perfetto per il suo sporco lavoro di catturare l’attenzione verso di sé ogni qualvolta sia presente.

Braccia rubate alla Troma

Se proprio vogliamo elencare gli aspetti più deboli di The Suicide Squad possiamo individuarli nella costruzione di una critica socio-politica dozzinale e un’introspezione psicologica piuttosto mal riuscita e dimenticabile in seduta stante. Tuttavia poco male, dato che James Gunn si prefigge l’obiettivo del mero intrattenimento intelligente, ricercato, cinéfilo. The Suicide Squad non è solo il miglior film di James Gunn, ma rappresenta il successo dell’intera dottrina spirituale della Troma dentro un genere ormai stantio e bisognoso di un’iniezione di adrenalina dritta al cuore. Mi casa es su casa.

Seb Di Fazio

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Come dici? Non è ancora finita?

Two is better than one.

Ora, non per fare il precisini o il primo della classe (un po’ sì, dai), ma che James Gunn fosse dalla parte dei buoni lo avevo capito già da tempo, per la precisione in seguito alla visione di questo, che in poco più di due minuti illustrava già bene a quale immaginario si rifacesse il nostro e la grana grossissima del suo personale senso dell’umorismo. Che vi aspettate, del resto, da uno la cui palestra nel mondo del cinema è stata contribuire alle sceneggiature di due lungometraggi Troma, uno dei quali è probabilmente il capolavoro della Troma stessa? Lo avrete capito, insomma, ma sono un fan praticamente dal giorno uno. Per questo fui strafelice del suo passaggio al cinema fatto con i paperdollari quando fu assunto dai Marvel Studios e Gunn non mi deluse: Guardiani della Galassia è, facilmente, se non il miglior episodio in assoluto del MCU quantomeno quello che, in mezzo a un mucchio di pellicole girate con lo stampino, ha il tono più riconoscibile e personale o, volendo sfociare nel turpiloquio, autoriale. Togli Gunn a GdG e otterrai un risultato completamente diverso, non necessariamente migliore o peggiore ma senz’altro monco di molti degli aspetti che lo hanno reso il successo che è stato. Poi sappiamo tutti cosa è accaduto, ossia quell’abbuffata di ipocrisia del suo licenziamento-reintegro da parte di Disney a causa di alcuni discutibili tweet vecchi di 10 anni, con in mezzo l’offerta di asilo dei rivali della Warner, una vicenda che Gunn visse molto male, per sua stessa ammissione. In un clima del genere era facile farla fuori dal vaso o finire per realizzare un prodotto con la mano sinistra, considerando come aggravante anche la farraginosità della macchina DC, che conta più fallimenti che successi. E invece Gunn ottiene carta bianca, fa il cazzo che gli pare e tira fuori il miglior film del DCEU.

James Gunn, Autore

Una volta fuori dal recinto del cinema per famiglie, Gunn è finalmente libero di scatenare tutta la sua furia iconoclasta in un film che, de facto, è Troma all’ennesima potenza, solo con 200 milioni di budget alle spalle. È una cosa che probabilmente leggerete ovunque, ma vale ugualmente la pena ribadirlo anche qui, tanto The Suicide Squad è filologicamente affine alle produzioni della factory di Lloyd Kaufman (che qui ha anche un cameo): dall’umorismo spesso scatologico fino al generoso e liberatorio gore che sfoggia compiaciuto sin dalle prime scene – siamo forse di fronte al cinecomic più sanguinoso di sempre – ma passando anche per degli sprazzi di sentimentalismo sincero e mai posticcio, gli ingredienti ci sono proprio tutti. Si vede persino un pene (!) così, a caso, i primi genitali nella storia del superomismo cinematografico se escludiamo l’uccellone del Dr. Manhattan in Watchmen (ma quello conta sul serio, visto che era blu? Votate). Qui dentro c’è davvero tutto Gunn, c’è tutta la sua storia e tutto ciò che ha contribuito a forgiare la sua poetica nel corso degli anni, sciorinata senza esclusione di colpi nel corso di queste 2 ore abbondanti che filano alla velocità di un Frecciarossa. In periodo (post) pandemico uscire in sala con una roba del genere, che appartiene sì al filone più redditizio degli ultimi anni ma che esclude a priori una buona fetta di pubblico a causa del rating R (anche se in Italia, in maniera abbastanza inspiegabile, arriva come film per tutti) è una scelta coraggiosissima che, al momento, pare non stia purtroppo pagando, anche se le opinabili scelte distributive hanno senz’altro avuto un peso specifico non trascurabile (a meno di una settimana dall’uscita nei cinema, il film è gia disponibile in streaming su HBO Max per il pubblico americano). Anche per questo fioccheranno gli inevitabili confronti con il brutto film di David Ayer che, nonostante tutto, aveva incassato diverse milionate e per quanto sia ingeneroso paragonare un prodotto realizzato con piena libertà creativa a uno che ha finito per essere sforbiciato dai produttori fino a renderlo irriconoscibile le differenze sono lampanti, in primis per come vengono sviluppati i personaggi, cosa in cui Gunn è maestro. Idris Elba, che eredita il ruolo da protagonista, è anni luce più carismatico e credibile di Will Smith, ma vale la pena citare anche una strepitosa Harley Quinn, a cui basta una scena per scrollarsi di dosso la caratterizzazione che aveva ricevuto nel precedente episodio e che la rendeva la più classica delle damsels in distress bisognosa di essere salvata dal maschio di turno, nello specifico il Joker dandy di quel cane di Jared “una vita in overacting” Leto. Ma più in generale tutti, e dico tutti, i membri della squadra si definiscono miracolosamente in una manciata di battute e ad ognuno è riservato almeno un momento memorabile, a prescindere da quanto limitato sia il loro screentime (qui si muore sul serio, e male), che si tratti di topi amichevoli (awww), squali parlanti con la voce di Sylvester Stallone in persona (AWWW) e stelle marine aliene – a proposito, Starro entra di diritto tra i migliori villain di sempre in un cinecomic, change my mind. In questo senso aiuta avere di fronte alla macchina da presa un cast eterogeneo e composto da gente che sembra divertirsi un mondo nei panni di queste simpatiche canaglie, compresi alcuni collaboratori abituali di Gunn come il fratello Sean, Nathan Fillion e quel faccione di granito di Michael Rooker, al quale è affidata l’apertura del film e che il regista inquadra con sconfinato amore cinematografico. Meritano una menzione anche il Peacemaker di John Cena, che evidenzia una vena comica non scontata e trova finalmente il ruolo della vita dopo anni di fallimenti nei panni dell’action hero standard, e il Polka-Dot Man di David Dastmalchian, per distacco il tizio in costume col superpotere più assurdo mai visto.

A(nother) bunch of A-holes

Mi viene davvero difficile pensare che qualcuno, tra lo sterminato popolo dei nerd che domina l’entertainment odierno, possa non apprezzare lo sforzo di Gunn. Forse gli ottusi Marvel-centrici che schifano a prescindere qualsiasi cosa abbia il logo DC in locandina? O forse le vedovelle di Snyder e del suo Superman che si spara le pose da Cristo di Rio in slow-motion? The Suicide Squad ha una personalità talmente spiccata da giocare proprio un campionato a parte; è un film libero, che fa esattamente quel che deve e anche un bel po’ in più, sul quale non grava il fardello del dover essere necessariamente collegato ad altri ventordici episodi – non che manchino i riferimenti ad altre pellicole del DCEU, ma sono talmente sfumati da rendere la sua visione assolutamente indipendente da loro – e che ha come unico interesse quello di raccontare una storia coinvolgente e intrattenere lo spettatore con un po’ di sana scorrettezza e un cuore grande come un palazzo. Chissà che DC non abbia trovato la via maestra per svecchiare un genere che, forse, inizia a mostrare la corda sia a livello creativo che di botteghino ma, a prescindere da questo, date una chance a questa sgangherata squadra suicida e difficilmente rimarrete delusi. Certo, ammesso che non abbiate problemi con l’umorismo grossolano e le teste che esplodono.

Armando Verzì