Psycho Goreman | Recensione

Diciamoci la verita: era ora che passasse la sbornia per quel revival del cinema di genere anni 80 che ha permeato a ogni latitudine gli ultimi, boh, 10 anni di entertainment? Quando diamine ha avuto inizio tutto questo? Sarà stata colpa del Taranta e di Rodriguez con quella operazione nostalgia che era il dittico Death Proof/Planet Terror? O forse di Refn, che sui neon e le tastierone a martello ha sostanzialmente costruito tutta la fase hollywoodiana della sua carriera? Fatto sta che i pur riusciti esempi di cui sopra hanno dato il via ad una serie di epigoni e sottoprodotti che di quella serie C tanto bistrattata dai più avevano ripreso la sola superficie, limitandosi a saturare la color correction e a citare a sproposito i device tecnologici del periodo; si, sto parlando di te, Kung Fury, che sarai pure una simpatica fucina di meme ma anche l’emblema di quanto quella generazione di filmmaker abbia misinterpretato quel decennio limitandosi ad applicare ad un cinema sostanzialmente figlio del suo tempo un filtro posticcio tanto per cavalcare una moda. Chiaro che comunque, in questo marasma di spropositato citazionismo a uso e consumo del LOL siano emerse anche cose meritevoli. Volendo deragliare in tema musicale senza nessun particolare motivo – anzi, sì che c’è, ed è questo – la synthwave personalmente mi fa volare, mentre in ambito cinematografò in pochi sono riusciti restituire agli artigiani dell’epoca la dignità che meriterebbero: uno di questi è Steven Kostanski. Kostanski nasce come make up artist e presta tutt’oggi il suo mestiere ad uno spettro di produzioni che va dall’alto (il suo primo credito su IMDb, per dire, è il Capote con Philip Seymour Hoffman) a Suicide Squad. Ma nel piccolo cuore del nostro alberga il sogno della regia e così nel 2011, assistito dal collettivo cui fa capo, gli Astron-6, racimola un piccolo budget col quale io forse riuscirei al massimo a girare il filmino del Festival degli asparagi di Sant’Angelo Le Fratte (PZ) e se ne esce con un esordio che è già manifesto della sua estetica: Manborg è un irresistibile frullatone di sci-fi distopica, one liner micidiali, stop-motion e VFX rigorosamente pratici, il tutto condito da una spruzzatina di gustosissimo gore. Kostanski, a differenza di molti colleghi, più che citare omaggia sul serio, recuperando in toto quel cinema comprese le sue ingenuità, mettendoci di suo vero cuore e un’indole anarcoide personalissima. Il resto della sua produzione ne è ulteriore testimonianza: torna dietro la mdp per quella fucilata al basso ventre che è Father’s Day, poi cambia registro, piazza sul comodino i santini di Carpenter e Lovecraft e gira The Void (che da queste parti abbiamo amato) e infine, tre anni fa, prende in mano il reboot del meno sfigato tra i franchise horror più sfigati e tira fuori Leprechaun Returns.

Ed eccoci ad oggi: Psycho Goreman, l’ultima sua fatica, non fa eccezione e rientra sostanzialmente in quel macrogenere di cinema per ragazzi che flirta col fantastico à-la Amblin. Solo, per la gioia di noi sadici depravati amanti dell’emoglobina, con il 100% di sbudellamenti in più.

Il cinema per ragazzi

Due fratelli poco meno che adolescenti, Mimi e Luke, dissotterrano dal giardino di casa propria uno strano sarcofago, ma una volta rimossa la luminosa gemma magenta che lo sigillava liberano la terrificante entità aliena intrappolata al suo interno, che si presenta loro come l’Arciduca degli incubi (best name ever) e il cui scopo, dopo secoli di prigionia è, in buona sostanza, fare a pezzi le persone e conquistare l’universo tutto. Ma il suo destino è ancora legato all’artefatto colorato di cui sopra che adesso appartiene a Mimi, cosa che la rende padrona dell’essere che ha appena liberato. Lo spaventoso Arciduca dovrà quindi scendere a patti con l’essere divenuto schiavo di una ragazzina preadolescente talmente entusiasta della cosa da presentarlo persino a genitori ed amici e ribattezzarlo con un soprannome decisamente più catchy: Psycho Goreman! Ma la liberazione del mostro non è passata inosservata nei meandri della Galassia…

Psycho Goreman è esattamente quello che sembra, una robina curiosa e poco altro, un semplice pretesto del Kostanski per dissezionare il consueto campionario di mostroni di gomma tipico delle produzioni Astron-6 e spaccare crocifissi a ginocchiate (sì, c’è anche questo). Ma cacchio se è divertente gustarsi questa ora e quaranta che riesce con disinvoltura a passare in una manciata di frame dalla Troma ai Power Rangers. C’è un gusto per il grottesco e per il demenziale che nel cinema di Kostanski non era ancora mai stato così spiccato, oltre che una lente velata di cinismo attraverso la quale il regista osserva i suoi personaggi: Mimi (assoluta migliore in campo) è una piccola psicopatica in erba, Luke è di certo il più puro tra tutti ma è totalmente asservito alla sorella più piccola e i loro genitori sono la classica coppia disfunzionale in cui il padre è il prototipo del maschio beta; persino colei che dovrebbe avere il compito di salvare la baracca, l’eroina designata della situa, la Templare – altra sonora pernacchia al cattolicesimo – è di fatto una tiranna che schiavizza i popoli dell’universo costringendoli ad ereggere templi per compiacere i propri dei. Non a caso, nel finale assisteremo ad un ribaltamento di prospettive sul quale è meglio non aggiungere altro, causa rischio spoiler. Ma è proprio questa ironia da black comedy che funge da collante e amalgama quella che è sì una coming-of-age story, seppur distorta, ma con in più la non trascurabile presenza di un demone alieno che si diletta decapitando terrestri a intervalli regolari.

<3 <3 <3

Questo continuo alternarsi di mood così diversi magari non lo renderà un film digeribile a tutti, ma ciò non toglie che Kostanski riesca a mantenere un equilibrio miracoloso, rendendo organico ciò che, in teoria, non dovrebbe esserlo. Ripeto, parliamo pur sempre di un film in cui il nostro simpatico pupazzone demoniaco, al quale Mimi si rivolge per brevità con l’acronimo PG (non so voi, ma io ci leggo un chiaro riferimento al visto censura in uso negli Stati Uniti) viene costretto a vestirsi da cowboy, suonare la batteria in una band teen-pop e giocare al playground con dei ragazzini per poi, pochi secondi dopo, usare i suoi poteri per sciogliere letteralmente la faccia ad un povero poliziotto. Se proprio vogliamo trovare un difetto a questa sincera puttanata, così sgangherata ma nel contempo così adorabile, è forse un finale un filino troppo anticlimatico, che dopo aver promesso uno scontro per il destino dell’umanità e aver ambientato tutta l’ora precedente in quattro-location-quattro lascia un po’ di amaro in bocca.

Ma, se avete un minimo di dimestichezza con la violenza grafica e con il black humour, sarà comunque davvero difficile riuscire non voler bene ad un piccolo film così scemo e così piacevole.