Esiste solo un genere che riesca a fomentarmi più dell’action reaganiano filoreazionario stile Commando, e sono i film sportivi. Storie di campo che diventano racconti di vita universali e che riescono a farmi digerire discipline tipo il baseball, delle quali non riuscirei a guardare una partita dall’inizio alla fine nemmeno se mi inchiodassero al divano per le palle. In Italia abbiamo un problema atavico con lo sport al cinema, nel senso che proprio non lo sappiamo raccontare. Prendete, ad esempio, il recente Il Divin Codino, tanto per non andare troppo in là con gli anni; la biografia di Roberto Baggio è, soprattutto, una storia di continue cadute e risalite: il primo grave infortunio da giovanissimo e lo spettro dell’addio al calcio, l’esplosione a Firenze, il Pallone d’Oro, il dannato rigore di Pasadena e i giornali che lo danno per finito, l’ostracismo da parte dei suoi allenatori, l’arrivo a Brescia da profeta, la rottura dell’altro crociato e il rientro da eroe in tempi record. Insomma, il materiale perfetto per rispolverare la sempreverde parabola dell’underdog la cui tempra riesce a piegare il destino avverso e che, contro tutto e tutti, ce la fa. E, invece, da un soggetto come questo tutto ciò che riusciamo a spremere è un moscissimo dramma padre-figlio che più standard proprio non si poteva, in cui il conflitto ci viene sbrodolato a colpi di dialoghi intensi mentre il calcio, semplicemente, non esiste, se non come mero contesto e intervallo tra una scena madre e l’altra. Asciughiamo il personaggio di tutta l’epica sportiva che, inevitabilmente, si porta dappresso, la bolliamo come ingombrante, la ignoriamo dandola quasi per scontata e ci limitiamo criminosamente a raccontare l’uomo e non l’atleta, come fossero due entità distinte. Il Divin Codino è l’ennesimo, perfetto paradigma della supponenza con la quale la nostra filiera produttiva guarda al genere (qualsiasi genere, in realtà), talmente ancorata com’è al vetusto concetto di “basso intrattenimento”. Ma il campo, nei film di sport, oltre ad essere veicolo di spettacolo è, soprattutto, il motore del cambiamento, il binocolo attraverso il quale lo spettatore osserva la natura dei protagonisti e lo sviluppo del loro arco narrativo nel corso della durata della pellicola. I porci capitalisti americani ovviamente questo lo sanno, d’altronde si tratta pur sempre di una formula che hanno inventato loro, ma in pochi sono riusciti ad applicarla così bene come Ogni maledetta domenica.
Lo conosciamo bene, Oliver Stone. Conosciamo bene il suo stile tendente al manicheismo, ai sottotesti politici, al montaggio ipercinetico stemperato dall’estetica epica e plastica dei suoi slow-motion. Nel 1998 ha ancora qualche problemino con le droghe ed è reduce da quel floppone di U-Turn, un disastro critico e di botteghino che non riuscì nemmeno a pareggiare i costi di produzione. Nonostante tutto, il suo nome continua a circolare sulle scrivanie di mezza Hollywood. Prima viene associato al reboot de Il Pianeta delle Scimmie, che poi finirà in mano a Tim Burton con i risultati che tutti conosciamo, poi sfiora la reunion con Tom Cruise sul set di Mission: Impossible II prima dell’avvento di John Woo. Ad un certo punto sembra a un passo dalla regia dell’adattamento di American Psycho, ma poi scazza con Leonardo Di Caprio, all’epoca interprete designato di Patrick Bateman, che rinuncia al ruolo inducendo la produzione a tagliare drasticamente il budget; Stone viene dunque gentilmente accompagnato alla porta e decide che il suo prossimo lavoro sarà ambientato nel mondo della palla ovale. In realtà l’idea di un film su football ronza nella testa del regista, che se ne dice grande appassionato, sin dai primi anni ’80, quando scrisse un trattamento su un linebacker sul viale del tramonto con in testa Charles Bronson nel ruolo principale che finì poi per rimanere chiuso in un cassetto. Stone sviluppa lo script di Ogni maledetta domenica partendo da due stesure preesistenti: Monday Night, accreditata a Jamie Williams, e da un adattamento del libro On Any Given Sunday a cura di John Logan, futuro triplo premio Oscar per Il Gladiatore, The Aviator e Hugo Cabret, per poi, in un secondo momento, integrare un ulteriore sceneggiatura intitolata Playing Hurt e scritta da Daniel Pyne. Il risultato è la storia di Tony D’Amato, leggenda e coach dei Miami Sharks da più di trent’anni. La morte dell’anziano proprietario della franchigia innesca una pesante crisi di risultati alla quale nemmeno un veterano come Tony sembra riuscire a porre rimedio e questo accresce la sfiducia nei suoi confronti da parte di Christina Pagniacci, la cinica figlia del precedente presidente cha ha ereditato la guida della società in seguito alla sua scomparsa. Come se non bastasse, all’inizio della nuova stagione Tony perde per infortunio Jack ‘Cap’ Rooney, quarterback e capitano, ed è costretto a rimpiazzarlo con Willie Beamen, un semisconosciuto con alle spalle appena una manciata di partite tra i professionisti. Per salvare la franchigia, che Christina vorrebbe trasferire a Los Angeles per ragioni puramente economiche, Tony dovrà rimettere in piedi la sua squadra nel tentativo di centrare i playoff.
C’è un aspetto in particolare, in Ogni maledetta domenica, che sarebbe tutto sommato sovrapponibile ad altre pellicole del periodo in cui il saggio allenatore catechizza la giovane stella, ma che qui diventa puro scontro ideologico: la contrapposizione tra vecchio e nuovo. Lo stesso Stone all’epoca sottolineò come il film nascesse principalmente come metafora del suo desiderio di voler essere ancora rilevante nell’industria nonostante stesse iniziando a percepire di essere ormai un dinosauro. Al centro di tutto c’è il rapporto mentore-allievo tra Tony e Willie, archetipi di due modi di intendere lo sport figli di epoche molto diverse: tanto è legato ai valori del gruppo e della fedeltà alla squadra quello di Tony, quanto è volto all’individualismo e al denaro quello di Willie. Ma lo stesso concetto lo si può estendere anche al folto gruppo di personaggi secondari, anche loro alle prese con una sorta di dualismo. Ancora Tony con Christina, certo, ma anche Cap e Willie fino ad arrivare ai due medici sociali, divisi da una morale e un’etica professionale diametralmente opposte. Nel rendere questi contrasti, ovviamente aiuta il numerosissimo cast. Messo in banca il ruolo di Tony affidandolo ad Al Pacino, uno che nei ’90 con i ruoli da anziano disilluso ci ha pagato le rate della Rolls, Stone gli affianca un elenco di comprimari lungo quanto un libro di David Foster Wallace. Pronti? Cameron Diaz, Jamie Foxx, Dennis Quaid, James Woods, LL Cool J, Matthew Modine, Ann-Margret, IL DOTTOR COX, Aaron Eckhart, Jim Brown e Elizabeth Berkley, più un quasi-cameo di Charlton Heston (su di lui ci torneremo).
Il football che Stone ci racconta è un circo tenuto in piedi dal denaro e dall’egoismo dei singoli attori, in cui i general manager sono degli squali perennemente alla ricerca del guadagno e i giocatori dei bambocci troppo cresciuti che amano ficcare alligatori sotto le docce e pippare roba dalle tette delle gold diggers, sedotti dalla celebrità e, anche loro, dai bonus dei loro contratti. Dinanzi ad una rappresentazione del genere non è un caso che la NFL abbia risposto “no, grazie” e non abbia acconsentito all’utilizzo dei propri nome e marchio, così come tutte le franchigie appartenenti alla Lega. Eppure il campo deforma la lente attraverso cui il regista lì osserva e ce li mostra come gladiatori disposti a tutto pur di guadagnare quel centimetro in più che li porterà al touchdown, come ci racconterà prima dell’ultimo incontro lo stesso Damato, in uno dei motivational speech più condivisi dai vostri amici su Facebook. Ed è proprio qui che entrano in gioco le partite.
Stone, mortacci sua, voleva rifare Ben Hur, ma con i giocatori di football al posto degli aurighi. Lo stesso regista lo dichiarò durante il press tour del film e ancor più prosaicamente, come se non bastasse la presenza di Heston in qualità di citazione vivente, inserisce senza vergogna un’intera scena del capolavoro di William Wyler durante un dialogo tra Pacino e Foxx, tra un campo-controcampo e l’altro. Trovato il modello da seguire, Stone ne sposta l’epica dalle sabbie di Gerusalemme a quelle dell’assolata Miami, la estremizza e restituisce la frenesia del gioco come nessun’altro prima di allora: ripende il campo da ogni angolazione umanamente possibile, monta, rimonta e monta di nuovo, creando un affresco in movimento caotico e mai noioso, in cui i suoi atleti, da quarti di bue infantili e non troppo intelligenti, diventano eroi dediti al sacrificio per raggiungere il famoso centimetro di cui sopra, sacrificio che, talvolta, coincide persino con la mutilazione (!); l’essenza della narrazione sportiva in celluloide, come si diceva in apertura, ma portata verso l’eccesso grazie al cinema di pancia di Oliver Stone. Se lo chiedete a me, una goduria.