Minority Report | Recensione

Minority Report recensione

Il dibattito tra libero arbitrio e determinismo ha plasmato per secoli la filosofia occidentale, e sebbene oggi sia un argomento piuttosto ridimensionato ai soli circoli accademici tuttavia rimane un tema dibattuto a causa del suo nesso con la teologia, a sua volta in combinato disposto con la politica, che al mercato mio padre comprò. Vi starete sicuramente chiedendo cosa lega Minority Report con questo incipit, ciò è chiarito fin da subito dal momento che questa dicotomia filosofica-concettuale rappresenta l’impalcatura narrativa dell’omonimo romanzo di Philip K. Dick. Difatti Minority Report è una semi-trasposizione diretta da Steven Spielberg in persona.

Ci stanno questi Precog, tre giovani ragazzi dotati di poteri extrasensoriali di precognizione degli omicidi. La squadra anticrimine guidata dal Capitano John Anderton (Tom Cruise) è preposta ad arrestare i presunti assassini prima che il fatto sia compiuto. Tutto meraviglioso per una società che si auto-compiace del suo Stato di Polizia. La circostanze assumono un’altra piega quando il nostro integerrimo Capitano finisce nel mirino dei sogni premonitori dei Precog, ed è solo allora che la prospettiva cambia, insieme al dubbio che il sistema abbia più di qualche falla al suo interno. È sempre così: l’ortodossia va bene quando gioca col culo degli altri.

Air force

Una storia tanto suggestiva sul piano etico-morale quanto però raccontata superficialmente, e ciò perché in Minority Report si offre più spazio ai momenti crime-action. Poco male in realtà, Spielberg mette in scena una particolareggiata messa in scena notevole, piena di ottime intuizioni sul piano del world building, qualità con il quale il nostro ci ha costruito una carriera. Oltretutto c’è una sottile ironia sopra le righe a ricordarci un po’ quei tempi quando il nostro si dilettava con Indiana Jones.
Minority Report riprende Il Fuggitivo e lo risputa in un’altra veste in chiave sci-fi. Giocare a guardie e ladri è un sottogenere del crime che giocoforza tiene la soglia di attenzione piuttosto alta e permette di empatizzare con il fuggitivo, qualsiasi cosa voglia dire.

Stavolta non c’è nessuna Isola che non C’è o un parco jurassico, qui Spielberg mette in scena un futuro plausibile, a tratti distopico se prima o poi il tema della privacy non sarà affrontato di petto. Le riflessioni vanno da sé, indotte, senza il bisogno di accompagnare lo spettatore con la manina, com’è giusto che sia, malgrado una strana fotografia che sembra buttata lì di proposito per distrarre l’attenzione.
Minority Report è una delle opere più mature di Steven Spielberg, e ad essere sinceri anche una delle ultime vere magie di un grande cineasta dei nostri tempi.