Mimic | Recensione

Lo dico chiaramente, negli anni 90 mi sono accadute due cose orribili: il rapimento di mio padre e la collaborazione con i Weinstein“. Guillermo Del Toro è un cineasta di talento, moderatamente nerd e un visionario della settima arte, tra l’altro con una notevole fan base al seguito. Però boh, nonché sia particolarmente apprezzato dalle parti de IlCinemista.

“Osserva bene le sue prime opere se cerchi una risposta” mi disse una volta il mio kebabaro di fiducia. Deciso a seguire questo saggio consiglio ho recentemente rivisto Mimic per la seconda volta a distanza di più di vent’anni. Prima opera Made in USA del regista messicano.


Mimic è un horror realizzato nel ’97 dalla casa di produzione Weinstein, in cui degli scarafaggi giganti (che schifo) assumono delle simil-sembianze umane per procacciare carne umana, proprio con lo stesso meccanismo biologico escogitato da alcuni predatori per ingannare le prede.

L’idea base era ragionevole per realizzarne un buon horror, e dato che gli scarafaggi sono l’attrazione principale della giostra, sono anche la parte più riuscita della pellicola, o perlomeno quando realizzati artigianalmente (tra i nomi in lista c’è anche quella leggenda vivente di Rob Bottin).
Ha ragione il kebabaro: in questo film la personalità di Del Toro la si può dedurre dalla messa in scena complessiva, tramite la presenza di alcuni archetipi di una favola dark, aspetti onnipresenti nella filmografia di Guillermo Del Toro.


Spiace però che Mimic appartenga alla classica categoria delle belle idee mal riuscite. I problemi sono strutturali: dialoghi piatti, sviluppo degli eventi banale, e una caratterizzazione dei personaggi di cui non frega niente a nessuno se schiattano o meno (tra le vittime illustri abbiamo un giovane Josh Brolin durante il suo periodo “oscuro” tra i Goonies e Non è un Paese per Vecchi, e il nostro Giancarlo Giannini, che boh, è lì a far la macchietta del cattolico).


A detta di Del Toro la sua brutta esperienza con i Weinstein non è stata di tipo sessuale, ma sul piano più banalmente professionale, a causa di una versione finale di Mimic frutto di compromessi e dal risultato confuso e disorientante, poiché inizialmente architettata su un finale alternativo e più cupo a dispetto dell’happy-end giunto a noi.
Ma in verità non è neanche detto che una maggiore libertà artistica avrebbe fatto miracoli, proprio per i motivi di cui parlavamo poc’anzi.

Ma chi lo sa, a volte basta una singola scena per cambiare il giudizio complessivo. “Ricordati di Mimic se vuoi svelato il mio segreto” mi disse il kebabaro dopo avergli chiesto l’ingrediente segreto del suo kebab.