Midsommar – Il Villaggio dei Dannati | Recensione

Lo ripeteremo all’infinito: l’horror è uno dei generi cinematografici più difficili da realizzare, dato che appartiene a quella categoria che di frequente subisce l’ansia da prestazione, a causa di ciò che si aspetta il pubblico da un horror che si voglia definire tale, con quei connotati carichi di tensione che le circostanze richiedono.

Inoltre da sempre l’horror affronta l’annosa questione del budget, poiché i costi di produzione non raggiungono quasi mai il budget di spesa di altri generi cinematografici, considerati in quel di Hollywood un investimento più sicuro. 

C’è poco da fare: l’horror se vuol essere spendibile deve far saltare dalla sedia di paura, ed è proprio per questa determinata ragione che molto spesso si fa uso del classico jump scare, perché funziona, è efficace. Tuttavia un uso smodato di questo trucco spesso inficia nella qualità complessiva del film, a danno di una ricercatezza di originalità che purtroppo è proprio ciò che manca un tanto al kilo a questa categoria un po’ bistrattata.

Fortuna che qualche volta arrivano dei nuovi cineasti che se ne sbattono delle convenzioni a portano una ventata d’aria fresca, tra i quali annoveriamo il giovane Ari Aster, già regista del bello e malato Hereditary (uno dei pochi film che merita davvero l’appellativo del termine “disturbante”), e adesso alla sua seconda prova con Midsommar – Il Villaggio dei Dannati.

Se il focus di Hereditary consiste nella lenta e inesorabile disgregazione della famiglia, in questa nuova opera di Ari Aster le attenzioni si riversano su un altro tema intimo qual è la relazione di coppia. Relazione che in tal caso è già in crisi, ma senza esserlo esplicitamente. 

Dopo un bel preambolo in cui vengono presentate tutte le pedine in campo, anche in modo tragico, seguiremo la giovane coppia di protagonisti e i loro gruppo di amici attraverso una viaggio che li porterà a soggiornare, per vacanza e per studio, in un sperduto villaggio svedese immerso tra lussureggianti boschi e colline verdi in stile Windows XP. Un luogo abitato da un’apparentemente pacifica comunità “ikeana” di adoratori di madre natura. Tuttavia non ci vorrà molto a comprendere che l’inferno può apparire come il paradiso in terra e alla luce del sole. Quest’ultimo aspetto è ciò che più caratterizza Midsommar nel confronto con la concorrenza, difatti l’orrore e il sangue vengono mostrati senza indugi e ombre che possano nascondere un singolo fotogrammo dell’immagine. Non è il primo che lo fa, e i riferimenti a The Wicker Man sono espliciti, però resta il pregio di essere comunque una roba rara a vedersi oggi giorno, e dunque almeno nelle intenzioni ammirevole. 

Allegorie e metafore in Midsommar si sprecano, ma è un aspetto che non è necessario approfondire, almeno che non sentiate la voglia e il tempo di esaminarle singolarmente. Se invece osserviamo l’insieme ci accorgiamo come Midsommar si aggiri fin dall’inizio su sentieri del thriller-horror già calpestati miriadi di volte. Un aspetto sul quale però sarebbe errato dargli troppo peso giacchè gli intenti si indirizzano su altri versanti, più intimi e psico-sociali, attraverso la prospettiva nichilista di Ari Aster. E se è contento lui allora siamo contenti noi.

Non siamo certamente di fronte una pietra miliare della categoria a cui appartiene, né a chissà quale opera indimenticabile, tuttavia una visione di Midsommar fa bene a chi ama il buon cinema e chi apprezza il coraggio di coloro che tentano di distinguersi dal gregge.