È inutile ripetere come un mantra qual è stata la portata del cinema sud coreano negli ultimi anni, ve l’hanno già detto tutti, dai critici brizzolati fino ai cinefili delle peggiori nicchie di Teheran. Gli Oscar a Parasite rappresentano il consacramento di una realtà tanto interessante, quanto diversa alla nostra.
Ma non pensiate che tutti i coreani abbiano imparato a fare del buon cinema da un giorno all’altro, poiché il numero di titoli importati dalla Corea del Sud sono giusto una piccola porzione per un paese tra i maggiori produttori al mondo di cinema e serie TV. Ergo, per la legge dei grandi numeri era inevitabile che prima o poi sfondassero anche qui da noi.
E d’altronde non possiamo non esserne felici, giacché alcuni film sono divenuti giustamente dei cult, Old Boy docet. Ma oltre quest’ultimo ce n’è per tutti i palati, ma dai confini più labili rispetto alle produzioni occidentali, horror compresi. A tal proposito arriviamo al dunque: Goksung – La Presenza del Diavolo è un horror coreano presentato fuori concorso durante il festival di Cannes (quelle legali) nel 2016, e acclamato dalla critica della kermesse.
Goksung si presenta fin da subito come un horror atipico, differente dai canoni occidentali. Inizia quasi come una commedia per poi divenire in seguito qualcosa di più affine orientativamente all’Esorcista di Friedkin, o almeno così appare superficialmente, dato che c’è dell’altro, forse pure troppo, anche considerando che la durata si attesta sui 150 minuti.
Come le altre opere provenienti dalla tigre asiatica, anch’esso ci mostra un po’ della cultura coreana (anche qui tanto cibo a tavola), con le loro superstizioni e il loro modo di approcciarsi alla paura. Un mondo a noi meno familiare rispetto alle produzioni d’oltreoceano, e di conseguenza si rimane inevitabilmente affascinati a tutto ciò che ci viene mostrato, analogamente alla visione di un bel documentario sulle cubomeduse.
Ma detto ciò, il film non è esente da alcuni difetti di fabbrica, originati da una sceneggiatura che a metà film inizia a contorcersi su sé stessa, quasi forzatamente per paura di non risultare prevedibile, ma è un meccanismo così fin troppo evidente da apparire perlopiù goffo nella sua esecuzione. Inoltre la sua maggior lacuna risiede nel mettere tanta carne al fuoco senza infine chiudere il cerchio, con un finale volutamente (e furbescamente) lasciato aperto a varie interpretazioni, purché se ne parli.
Qualcuno ha urlato al capolavoro, ma dubito che se un’opera simile fosse stata prodotta in Europa avrebbe riscontrato lo stesso fervore. Goksung può sembrare alquanto originale a noi occidentali, e difatti lo è, ma nonostante tutto non possiede quella verve da titolo di un certo spessore, e neanche quelle due/tre scene memorabili degne di nota.
Alla fine della giostra rimane solo un polpettone coreano tecnicamente ben realizzato, senza infamia e senza lode. Ma soprattutto ci lascia la curiosità di sapere perché gli asiatici stanno così in fissa col cibo.