Freaks Out | Recensione

Comunque vada, di Gabriele Mainetti ce ne ricorderemo. Al di là dei gusti personali, legittimi, sarebbe miope non rendersi conto di quanto il suo lavoro provi con tutte le sue forze a traghettare il cinema italiano verso lidi ancora inseplorati, con un coraggio insindacabile infuso in uno sforzo produttivo senza precedenti per il panorama ultra-conservatore dell’audiovisivo tricolore. Negli ultimi 25 anni forse il solo Salvatores ha avuto l’ardire di provare ad avvicinarsi ai modelli statunitensi, ma con risultati non esattamente sovrapponibili; Nirvana partiva con l’obiettivo di fare uno sci-fi cyberpunk sul modello di Blade Runner e finiva per essere qualcos’altro, Il ragazzo invisibile voleva plagiare i Marvel senza averci capito assolutamente nulla e finiva per essere una merda.

Senza paura di scomodare paragoni ingombranti, come Sergio Leone prima di lui con il western Mainetti prende un genere tradizionalmente appannaggio esclusivo dei grandi kolossal statunitensi, il supereroistico, e lo rende proprio, contaminandolo con il cinismo e la ruvidezza del cinema europeo. Se Lo chiamavano Jeeg Robot, già prodigioso per gli stessi motivi, era la prova generale, Freaks Out alza vertiginosamente il tiro con l’obiettivo di realizzare un’opera dal respiro più ampio, un imponente blockbuster fantastico; per farlo ci racconta la storia di quattro circensi dotati di poteri “speciali ma non straordinari” e del loro viaggio verso l’accettazione di sé stessi, con il secondo conflitto mondiale sullo sfondo.

Gli X-Men della capitale

Ci sono Matilde (Aurora Giovinazzo, una rivelazione), il cui corpo emette scariche elettriche, Fulvio (Claudio Santamaria), affetto da ipertricosi e dotato di forza sovrumana, Cencio (Pietro Castellitto), con la facoltà di controllare gli insetti e Mario (Giancarlo Martini), un nano capace di calamitare i metalli. Si esibiscono tutti al circo Mezzapiotta gestito dal saggio Israel (Giorgio Tirabassi), per ognuno la cosa più vicina ad una figura paterna, in una Roma soffocata dall’occupazione nazista. Faticano a far pace con la propria diversità e il tendone del circo rappresenta per loro il riparo dal mondo esterno, un confine ideale entro cui siano leciti i mostri che sono convinti di essere. Ed è proprio il discorso sul “diverso” a rappresentare il vero cuore del film. Lo conferma il gran villain interpretato da Franz Rogowski, l’esatto rovescio della medaglia dei quattro protagonisti: freak anche lui (ha 6 dita per mano) e che ha visto soffocato il proprio desiderio di entrare a far pare delle SS insieme al fratello, a causa delle note posizioni del Reich riguardo la purezza della razza. E lo confermano anche i Diavoli Storpi, gruppo di partigiani mutilati che aiuteranno i nostri protagonisti nel corso della storia, capitanati dal Gobbo di Max Mazzotta, al secondo ruolo della vita dopo il Fiabeschi di Paz! e che cannibalizza la scena ogni volta che compare in campo.

Man of the match

Mainetti e il fido Nicola Guaglianone in sceneggiatura recuperano sì idee non di primissima mano (Matilde non può avere contatti con il prossimo a causa del suo dono, esattamente come Rogue nel primo X-Men di Bryan Singer) ma le riciclano inserendole in un originale pastiche che inizia con echi fantasy a là Del Toro, prosegue sulla scia del miglior Spielberg eighties con punte rosselliniane ed ha un terzo atto fiammeggiante che guarda a Quella sporca dozzina come nume tutelare. Il risultato di questa abbuffata di infuenze è un vero e autentico spasso. Come nella miglior tradizione del cinema d’avventura c’è spazio per l’azione, per le risate ed anche per momenti di sincera commozione. Mainetti e Guaglianone tengono in piedi il tutto con mano solidissima, oltre che con quella sana spocchia di chi ha perfettamente idea di ciò che vuole anche se, talvolta, quella stessa sicumera li porta magari anche a strafare; il carico di sesso e violenza è forse fin troppo marcato per un film che vuole essere fieramente mainstream, ed una scena già abbastanza chiacchierata intorno alla metà del film nulla aggiunge all’intreccio, risultando pura maniera, ma questo è il solco scavato da Mainetti per distinguersi dai modelli di riferimento, esattamente come in Jeeg, dove alcuni passaggi tendevano ad essere volutamente respingenti. Ciò che invece in Jeeg faceva un po’ storcere il naso e che invece avvicina Freaks Out alle sue pur alte ispirazioni, rappresentando forse l’aspetto più stupefacente dell’intera operazione, è l’alto livello dell’effettistica speciale. I numerosi rinvii imposti dalla lunga post-produzione all’uscita dalla sala acquisiscono tutto un altro significato; i primi minuti di Freaks Out sono un manifesto tecnico oltre che narrativo, mettono subito in chiaro il tono del film e sfoggiano una CGI sorprendente, superiore persino a molti contemporanei a stelle e strisce realizzati con budget almeno dieci volte superiori e che rimane costante per tutta la durata della pellicola, pur con sporadici ma perdonabili inciampi.

Luca Marinelli scansate

Se Freaks Out potrà davvero avere un impatto considerevole sull’industria del nostro cinema e generare degli epigoni potranno dircelo solo il tempo e il botteghino, ma a prescindere da ciò che sarà ci troviamo di fronte ad una pellicola che va protetta e difesa con forza. È la dimostrazione, non la prima ma di sicuro la più eccitante, che un altro cinema italiano è possibile, che 40 anni dopo siamo finalmente pronti per tornare a dialogare con i generi, a rivaleggiare con chi di quegli stessi generi ha codificato le regole e contribuire a scriverne di nuove. Le nostre.