Attore, sex symbol, personaggio di un videogioco e, più in generale, probabilmente essere vivente più amato del pianeta. Nell’anno del Signore 2021 Keanu Reeves è tutte queste cose contemporaneamente. Ma chiusa la parentesi Matrix (almeno fino ad oggi) per la carriera del fu Johnny Utah inizierà una lenta parabola discendente che per qualche tempo lo trascinerà fuori dai radar; i copioni davvero validi iniziano a latitare e il nostro finirà per imbarcarsi in una serie di progetti di secondo piano, tanto che nel quasi decennio successivo la cosa più rilevante associata al nome Keanu Reeves sarà un meme. Il tutto fino a quando il dinamico duo Stahelski–Leitch non avrà la brillante idea di rispolverarlo ed addestrarlo a diventare un’implacabile macchina di morte.
Quando Constantine si affaccia al buio della sala, siamo nel 2005, manca ancora qualche anno all’avvento della rivoluzione copernicana in ambito cinecomic targata Marvel ma la qualità media del genere inizia a salire. Gli X-Men di Singer e gli Spider-Man di Raimi sono già alle spalle, così come il primo Hellboy di Del Toro, e nello stesso anno escono anche due pellicole di discreto rilievo per l’evoluzione del filone come il primo Batman di Christopher Nolan e Sin City di Robert Rodriguez che provano, con metodi diametralmente opposti, ad aggiungere qualcosa alla formula, il primo trasportando il personaggio in un contesto decisamente più realistico, il secondo mantenendo una fedeltà e una riverenza al materiale di partenza forse persino eccessive. Nonostante si sia ancora lontani dai tempi odierni in cui il fumetto è diventato pietra angolare della cultura pop, e quindi trattato con i guanti dagli studi, pena i predicozzi di fandom sempre piu agguerriti, il cinema inizia a mostrare di aver quantomeno iniziato a metabolizzarne il linguaggio, in controtendenza rispetto agli spesso irricevibili esperimenti del decennio precedente. E però ancora evidente come la più grossa fetta di un mercato che licenzia circa una decina di titoli l’anno sia rappresentata da prodotti che non sappiano bene cosa farci con le proprie fonti, i cui adattamenti si limitano a recuperarne la sola superficie e limarne (e, talvolta, banalizzarne) i tratti più caratteristici. Un esempio? Prendere un personaggio le cui fattezze furono ispirate da Sting in persona e farlo interpretare da un hawaiano.
Un po’ di contesto: John Constantine viene ideato da quell’eminenza grigia del fumetto moderno che è Alan Moore intorno alla metà degli anni ’80. Mago esperto di occultismo dal carattere piuttosto spigoloso, fa la sua prima apparizione nella serie Swamp Thing come personaggio di contorno per poi, qualche anno dopo, esordire da protagonista in una testata a lui interamente dedicata, Hellblazer, da cui verrà tratto il film in oggetto, pur con diverse libertà.
Sì perché Constantine, in effetti, oltre a stravolgere l’aspetto del protagonista, ne elimina del tutto la componente magica presentandocelo come una specie di esorcista, cancella l’ambiguità di fondo del fumetto in favore di uno spiccato manicheismo, trasferisce l’ambientazione dalla decadente Liverpool della controparte cartacea a una Los Angeles meno assolata che mai e si inventa di sana pianta qualche trovata decisamente tamarra (il fucile a forma di crocifisso e il tirapugni inciso con simboli sacri). Ne viene fuori un noir sporcato di horror rigorosamente PG-13 che semplificherà anche all’osso la graphic novel ma, sorprendentemente, funziona.
Nonostante uno script decisamente standard nel definire l’intreccio, per non dire traballante nel suo affastellarsi di temi che man mano dimentica per strada, tra un dialogo ad effetto e l’altro, l’indagine di Constantine (Reeves) sul suicidio di Isabel Dodson (Rachel Weisz), gemella della detective Angela (Rachel We…vabbè, avete capito), riesce nell’intento di offrire esattamente ciò che promette: intrattenimento un po’ sciocchino a suon di scene action stilose, condito con quella patina dark and edgy che tanto piace agli adolescenti, vero target di riferimento del film, convinti così di star guardando la roba dei grandi. Gran parte del merito va all’ex videoclipparo Francis Lawrence, alla sua prima prova nel lungo e che qualche anno dopo entrerà nella serie A dalla porta principale diventando il regista di riferimento della saga di Hunger Games, di cui dirigerà 3 capitoli su 4. Lawrence riesce nel dare un buon ritmo e (con l’aiuto del direttore della fotografia Philippe Rousselot) una discreta personalità visiva ad un film che sotto ogni altro aspetto di carattere non ne avrebbe alcuno, nonostante una CGI già allora non esattamente all’avanguardia. Completa il pacchetto un cast pieno di comprimari dai volti riconoscibili: Shia LaBeouf in piena pubertà, Peter Stormare gigione senza freni nei panni di Lucifero, Djimon Honsou vestito da pappone, Pruitt Taylor Vince che fa quella cosa con gli occhi che gli viene tanto bene, l’ex signor Gwen Stefani Gavin Rossdale e Tilda Swinton nel consueto ruolo dell’androgina.
Risultato: discreto successo al box-office, uno status che nel corso degli anni è cresciuto fino a renderlo un film cult e, notizia di qualche mese fa, discorsi avviati per la produzione di un sequel. Per un onesto blockbuster medio, insomma, non c’è malaccio.